La banalità della cattiveria

La banalità della cattiveria

Sapete chi era Reinhard Heydrich?

Era il capo dell’Ufficio Centrale per la Sicurezza del Reich, l’architetto della Soluzione Finale. Lo chiamavano “il boia biondo”. Era lucido, efficiente, borghesemente elegante. Ma soprattutto: era convinto di stare facendo il proprio dovere. La sua crudeltà non si esprimeva in gesti plateali, ma in firme ordinate, circolari amministrative, elenchi compilati con la perizia di un ragioniere.

Ecco, oggi non ci servono più i carnefici con la divisa nera. Basta una connessione internet e un profilo Facebook, magari fatto dai figli o dai nipotini, che tanto oggi sanno tutto su come usare telefoni e computer.

“Esseri inutili, andrebbero tutti eliminati.”

“Chi arriva da clandestino va rispedito indietro.”

“A me servono per lavorare, quindi sì, però che stiano zitti.”

Non è più odio gridato nei microfoni. È cattiveria sospesa nel vuoto, lanciata con leggerezza come si getta una cartaccia dalla macchina in corsa. È il fascismo domestico, il razzismo condominiale, la guerra civile fredda da tastiera. Ed è pericoloso non solo perché offende, ma perché normalizza.

Perché se lo scrive il signor Pippo, con la foto della nipotina in braccio, allora tutto è concesso. Se lo dice Paperina, tra un caffè e una lamentela sulla raccolta differenziata, allora è solo “una sua opinione”.

No.

Non è un’opinione. È un veleno. E ogni volta che lo si lascia scorrere, lo si fa passare per normale, diventa un precedente.

Si è parlato molto della “banalità del male”, quella concettualizzata da Hannah Arendt assistendo al processo di Eichmann. Ma oggi, forse, è più adatta una nuova formula:

la banalità della cattiveria.

Una cattiveria piccola, squallida, senza ideologia ma con tantissimo risentimento. Una cattiveria che cresce a forza di sentirsi “lasciata indietro”, “invasa”, “sostituita”. E che finisce per voler eliminare tutto ciò che non le somiglia.

Ma la vera domanda è:

quando abbiamo smesso di vergognarci di essere così crudeli?

Ecco perché non possiamo più restare in silenzio. Non possiamo accettare che l’odio venga lasciato lì, sotto i nostri post, come se niente fosse. Non possiamo più rispondere con l’ironia quando davanti abbiamo il germe della violenza politica e sociale.

Non possiamo, perché abbiamo letto i libri, visto le foto, ascoltato le testimonianze.

E perché Reinhard Heydrich era solo il vertice.

Ma senza milioni di piccoli complici passivi, non sarebbe mai esistito.

Sapete com’è morto Reinhard Heydrich?

Non fucilato. Non impiccato. Non giudicato. Ma ucciso da un’infezione.

Il 27 maggio 1942 un commando dell’esercito cecoslovacco in esilio, addestrato dagli inglesi del SOE, organizzò un attentato contro di lui a Praga. Fermarono l’auto scoperta su cui viaggiava senza scorta. Provano a sparargli con un mitra Sten: s’inceppa. Ma una granata lanciata da uno degli attentatori lo colpisce.

Heydrich esce dalla macchina, tenta di reagire, perfino di inseguire. Poi crolla. Viene portato in ospedale. Le ferite non sembrano mortali. Ma lo diventano.

A ucciderlo fu la setticemia. Causata, pare, da crini di cavallo usati per imbottire il sedile della sua Mercedes, penetrati nella milza. I medici delle SS, ideologicamente ligi e scientificamente scellerati (verrebbe da dire “cojoni”), decisero di non somministrare sulfamidici. Morì il 4 giugno 1942 alle 4:30 del mattino.

Un uomo che voleva decidere chi doveva vivere e chi no, spazzato via da ciò che aveva sempre considerato un dettaglio secondario: la vita umana vera, quella fatta di errori, di infezioni, di corpi fragili.

Joachim Fest lo descrisse così:

“In lui le capacità intellettuali si accompagnarono ai caratteri somatici, per cui egli poteva apparire la conferma della teoria della ‘stretta relazione tra psiche e razza’: l’anticipazione di quel nuovo tipo d’uomo […] padrone della vita e della morte, che comanda sulla paura e sulla superstizione, […] ma che non si lascia vincere dalle tentazioni dello spirito e da una sedicente libertà scientifica.”

Ecco, oggi non abbiamo più Heydrich in giacca e cravatta.

Abbiamo profili anonimi, con selfie familiari e frasi come: “andrebbero tutti eliminati”. Non conosciamo il loro vero nome. Non possiamo guardare i loro occhi. Ma le loro parole bastano. Perché i cattivi, alla fine, si somigliano tutti.

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