Vallorgàna è un isolato paesino di montagna, uno di quelli lontani sullo sfondo. Molti dei lettori lo possono anche aver visto, almeno un qualcosa di simile, aprendo la finestra e cercando ai piedi delle montagne che ci circondano.
A Vallorgàna la vita scorre semplice e al ritmo delle stagioni, con i suoni tipici dei lavori che si fanno per tagliare il fieno, la legna o accudire gli animali. Un quadro che da secoli va avanti declinando verso il futuro, dove sempre meno battesimi disegnano una riuscita incerta per le tante famiglie che hanno sopportato l’avanzata del tempo. Ma a Vallorgàna c’è anche un Duca, erede di una nobile famiglia che vive solo in una villa poco fuori dal centro abitato. Un bel giorno, un uomo del posto, Nelso Tabiòna, che da molto ormai si prende cura dei possedimenti del signorotto del posto, da lui si presenta con una infausta notizia: qualcuno ha sbagliato, forse volutamente, nel tagliare alberi all’interno dei possedimenti del duca. Si tratta di seicento quintali di legna, già messi da parte dai tagliatori, che indicano il nome di chi ha commissionato quel taglio: Mario Fastréda.
Perché un uomo di ottant’anni si è messo contro il Duca? Cosa lo ha spinto a fargli il torto di non rispettare i confini e tagliare la sua legna? Sono domande che suonano strane in una logica di lettori di città, ma in Lunigiana hanno un senso più profondo, forse perché di storie simili ne sono state sentite già diverse, negli anni e ancora oggi.
Da un piccolo sgarbo Matteo Melchiorre è riuscito a costruire una storia che mette a confronto catasti, geometri, antichi scritti, tradizioni e leggende, rivestendo di colori vivaci personaggi come parroci di paese, bar dove gli anziani raccontano storie e bevono qualche bicchiere di troppo, dove ancora resistono feste e fiere che una volta erano frequentate, ma soprattutto dove il personaggio principale è un eroe non per sua scelta.
Su La Stampa, Marcello Fois, recensendo Il Duca, fa un’osservazione importante, mettendo in risalto il fatto che l’autore “Ci ricorda che un grande romanzo pretende un lettore attivo, che sia in grado di mettere in campo sé stesso, come se si sedesse a fianco dell’autore per scrivere quanto sta leggendo”. In effetti, a tratti, si sentirà il vento autunnale venire a soffiare dietro le scapole, si sentirà il vuoto delle stanze della villa dei Cimamonte, si vedranno le occhiate torve degli amici di Fastréda e ci si raccoglierà nella benevola pausa pranzo della Dina e – cosa più importante – avremo voglia di impugnare la penna e proseguire noi la storia, a debita distanza, dato che le parole di Melchiorre, nella loro grammatica sembrano essere semplicemente perfette.