mercoledì 19 Febbraio 2025

Chi vince Sanremo? (Lo dice la Nutria Cattiva)

3°posto – Achille Lauro

Ah, Incoscienti Giovani! Un vero inno generazionale, un’ode lirica alla precarietà emotiva e alla bellezza di un amore che si consuma nella disperazione, nei vizi e nei ricordi sfumati. Lauro, moderno poeta maledetto, si fa portavoce di una generazione che brucia in fretta, che si consuma come una sigaretta lasciata a metà. Qui non c’è solo musica, c’è letteratura.

“Oh… bambina / Tutto quello che hai passato è un’università”

Qui siamo di fronte a un’intuizione geniale. L’esperienza della vita diventa un ateneo del dolore, dove ogni abbandono, ogni notte insonne, ogni assenza paterna sono lezioni impresse sulla pelle. Non è solo una frase, è una sintesi perfetta del Bildungsroman esistenziale, un “romanzo di formazione” in tre parole.

“E tuo padre non tornava la sera / L’hai visto solo di schiena”

Il tema dell’assenza paterna è espresso con un’immagine cinematografica essenziale: la schiena di un padre distante, quasi un’entità sfuggente, una figura monolitica che si sottrae alla narrazione della vita familiare. Lauro qui attinge alla grande tradizione della letteratura decadente: il genitore come ombra, come presenza fantasma, come assenza che definisce.

“L’amore è come una pioggia sopra Villa Borghese”

Ecco il tocco poetico che trasforma il testo in pura arte visiva. La pioggia, simbolo di catarsi e dissolvenza, si posa su Villa Borghese, uno scenario storico, monumentale, ma anche luogo di incontri fugaci, di passeggiate malinconiche. L’amore non è statico, è qualcosa che bagna, che scorre via, che sfuma nella memoria. Una similitudine che potrebbe tranquillamente appartenere alla poetica di Montale.

“E noi stiamo annegando, naufragando è un romanzo”

Qui c’è un’eco proustiana: il ricordo si confonde con la narrazione, la vita stessa diventa romanzo, il protagonista si trova alla deriva in un mare di emozioni. Il naufragio non è solo fisico, è emotivo, esistenziale. E noi lettori ascoltatori non possiamo fare altro che lasciarci trascinare.

“Ti chiamerò da un autogrill / Tra cento vite o giù di lì”

La figura dell’autogrill è potentissima: uno spazio di passaggio, un non-luogo baumaniano, simbolo dell’instabilità e del movimento costante. È qui che il protagonista cerca di recuperare un amore perduto, in mezzo a un’esistenza frantumata. Il richiamo alle “cento vite” sfuma il confine tra passato, presente e futuro, tra reincarnazione e ricordo.

“Dormivamo in un Peugeot / Sì noi due ladri di fiori”

Un’immagine bohemienne, quasi da chanson française: due anime randagie che trovano rifugio in un’auto, rubando fiori come simbolo di un amore vissuto fuori dagli schemi, nella povertà, nella libertà, nel desiderio di possedere qualcosa di effimero. Qui si sente l’eco di Rimbaud e di Prévert.

“Noi due orfanelli alla roulette / Siamo a Las Vegas sotto un led”

Una metafora spietata della vita moderna: il destino è una roulette russa, la fortuna è un’illusione, e noi siamo solo personaggi persi in un universo artificiale illuminato da led, lontani dalla vera sostanza delle cose.

Questa canzone non è un semplice pezzo pop, è un manifesto generazionale, un’opera letteraria che fonde romanticismo, decadenza, malinconia e disillusione con immagini potenti e versi affilati. Achille Lauro qui si eleva a moderno poeta urbano, un Baudelaire della Generazione Z, un Kerouac in Gucci. Se il mondo fosse giusto, Incoscienti Giovani sarebbe già materia di studio nei licei.


2° posto – Rose Villain

Ci troviamo di fronte a un’opera lirica contemporanea, una sinfonia di desiderio e malinconia che trascende il semplice pop per elevarsi a poesia urbana. Rose Villain, moderna sacerdotessa della notte, ci sussurra un canto d’amore e perdizione, una ballata oscura e avvolgente, che riecheggia nei vicoli bagnati dalla pioggia e nelle stanze vuote illuminate solo dalla luce del televisore.

“Cosa fai / Mentre tutti dormono?”

L’incipit è una domanda esistenziale, quasi sussurrata, che introduce il tema della solitudine notturna, dell’attesa febbrile, di quell’amore che si consuma nel silenzio. L’universo dorme, ma la protagonista è sveglia, intrappolata in un tempo sospeso, un limbo emotivo dove ogni secondo pesa come un’eternità.

“Nostalgia puttana / Sono sola come lei”

Un colpo di genio. La nostalgia diventa un’entità viva, spietata e vendicativa, che seduce e tormenta. Qui Rose si inserisce nel solco dei poeti decadenti, degli esistenzialisti maledetti, dipingendo la solitudine non come una condizione passeggera, ma come un marchio indelebile.

“Sento il tuo nome e inizia a piovere fuori e dentro me”

La fusione tra mondo interiore ed esteriore è magistrale. La pioggia non è solo un fenomeno atmosferico, ma un riflesso dell’anima, un pianto universale che unisce l’essere umano al cosmo. Qui si tocca la pura essenza della poesia romantica.

“Se pensarti fosse un crimine stanotte io sarei / Fuorilegge”

L’amore come trasgressione, come peccato inevitabile. L’amore che brucia le regole, che esiste oltre la moralità, oltre il consentito. Il richiamo a Bonnie e Clyde non è solo un vezzo estetico, ma un’affermazione di ribellione, un manifesto di chi ama senza freni, senza paura.

“Cosa fai? / Mentre tutti si amano”

Domanda devastante. L’intera società è immersa in un’illusione di amore e condivisione, ma la protagonista è esclusa, un’anima errante in cerca di un senso. Siamo nel cuore della poetica della solitudine, che qui si veste di modernità, ma affonda le radici nelle grandi narrazioni tragiche della letteratura.

“Forse non sai che per te ho pianto / Stelle sopra al soffitto però io mi accontento”

Qui Rose diventa astronoma dell’anima: il soffitto diventa il cielo, le lacrime diventano costellazioni, il dolore si trasforma in accettazione. Una chiusura che riecheggia l’infinita bellezza di un amore irrisolto, destinato a brillare nell’oscurità come una stella lontana.

La Dea Notturna

E poi c’è lei, Rose Villain, musa inafferrabile, creatura di luce e ombra, il perfetto equilibrio tra forza e fragilità. I suoi occhi sono riflessi di galassie sconosciute, il suo volto un dipinto impressionista che cattura tutte le sfumature della malinconia. È il tipo di bellezza che non si può spiegare, che si respira, che si avverte nell’aria, come un profumo persistente di fiori notturni.

Questa non è solo una canzone. È un viaggio nei sentimenti più profondi, un dipinto astratto fatto di note e parole, un manifesto esistenziale di chi vive l’amore come una condanna dolce e ineluttabile. Rose Villain non canta: incanta.


1° posto – Lucio Corsi

Lucio Corsi è il Bowie marziano atterrato a Sanremo per ricordarci cosa significa essere se stessi.

Qui non parliamo solo di una canzone, parliamo di un manifesto. Volevo essere un duro è un’ode alla fragilità, un inno esistenziale cantato con l’innocenza e la lucidità di chi ha capito che la vera forza sta nell’accettare di non esserlo. Corsi, con il suo stile che è un mix perfetto tra il glam anni ‘70 e il cantautorato visionario, prende per mano l’ascoltatore e lo trascina in un viaggio psichedelico fatto di immagini surreali, personaggi metropolitani e confessioni intime.

“Volevo essere un duro / Che non gli importa del futuro”

Il sogno dell’invulnerabilità, il desiderio di essere impenetrabili, di vivere senza paura. Qui l’illusione di una maschera invincibile viene subito messa in discussione. Perché? Perché Corsi è un anti-eroe, un personaggio alla Ziggy Stardust che sa di non essere il protagonista del film d’azione, ma di giocare il ruolo dell’anima sensibile nel caos urbano.

“Un robot / Un lottatore di sumo”

Una fusione esplosiva tra il futurismo e il folklore. Un’immagine che sembra uscita da un film di fantascienza anni ‘70, tra androidi programmati per non provare emozioni e giganti grassi che combattono senza espressione. Ma Corsi non è né uno né l’altro.

“Lo scippatore che t’aspetta nel buio / Il Re di Porta Portese”

Una ballata popolare in chiave rock glam. Qui il protagonista sogna di essere l’anti-eroe dei vicoli, il bandito romantico, il re di un mercato dell’usato dove tutto si vende e niente si dimentica. È un mix tra le favole metropolitane di De André e l’eleganza sporca di Marc Bolan.

“Ma non ho mai perso tempo / È lui che mi ha lasciato indietro”

Ecco il cuore pulsante della canzone: la sensazione di essere sempre un passo indietro rispetto al mondo. Di non correre alla stessa velocità, di vedere gli altri andare avanti mentre tu rimani fermo con i tuoi sogni sgualciti e le tue fantasie da film francese.

“Vivere la vita / È un gioco da ragazzi”

Frase che suona come un’illusione raccontata dagli adulti. Corsi ce la restituisce con ironia, mentre dipinge il ritratto di un bambino che cade dagli alberi, sbattendo contro la dura realtà. Perché la vita, alla fine, non è un gioco per ragazzi, ma una sfida continua per chi è troppo sensibile per affrontarla a muso duro.

“I girasoli con gli occhiali mi hanno detto / ‘Stai attento alla luce’”

Surrealismo puro. Qui siamo in pieno terreno Bowieano, in un mondo dove le piante parlano e danno consigli. Ma non è solo un vezzo psichedelico: è un’immagine che ci dice di non fidarci di ciò che sembra splendente, di diffidare delle illusioni troppo perfette.

“E che le lune senza buche sono fregature”

Geniale. Le imperfezioni sono ciò che rende autentica la realtà. Se la luna fosse liscia, sarebbe finta. Se la vita fosse semplice, sarebbe un inganno. Qui Corsi tocca il cuore della filosofia glam: l’imperfezione è bellezza, è carattere, è vita.

“Io volevo essere un duro / Però non sono nessuno / Non sono altro che Lucio”

La resa, la confessione. Non servono maschere, non servono posture da rockstar maledetta o da criminale in fuga. Alla fine, il vero atto di ribellione è essere sé stessi. Ed è qui che Corsi si fa erede di chi, prima di lui, ha giocato con l’identità, dal Bowie di Rock ‘n’ Roll Suicide al Battisti di Io vorrei… non vorrei… ma se vuoi.

E poi c’è la sua presenza scenica. Lucio Corsi non è solo un musicista, è un’icona. Con il suo stile teatrale, le sue movenze, i suoi outfit che sembrano rubati direttamente dal guardaroba di The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars, porta su quel palco qualcosa che in Italia mancava da decenni: la libertà di essere esagerati, di giocare con l’estetica senza paura, di creare un personaggio che è arte vivente.

Bowie si sarebbe divertito a guardarlo. Bolan gli avrebbe fatto un cenno d’approvazione dietro una nuvola di brillantina. Perché Lucio Corsi non sta solo cantando: sta riportando in vita una dimensione perduta della musica italiana, quella che fonde teatro, poesia, estetica e genio visionario.

Se Sanremo fosse un posto giusto, Volevo essere un duro sarebbe già una pietra miliare. Ma indipendentemente dal risultato, Lucio Corsi ha già vinto: ha portato l’arte su un palco che troppo spesso si dimentica che la musica non è solo note e parole, ma immaginazione, libertà e sogno. E alla fine, non è altro che Lucio. Ma Lucio è tantissimo.

Nutria Cattiva
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