mercoledì 16 Ottobre 2024

Beatrice Schiros, tra (vicino) laboratorio e monologo-confessione

Beatrice Schiros ci risponde squillante mentre si prepara al laboratorio in programma al Teatro della Rosa di Pontremoli, il prossimo 5 e 6 ottobre.

«Non pensavo potessero convincermi a fare laboratori, invece poi ho provato e, sai che ti dico?, è divertente. Il merito (local) va a Monica Rosa che con il suo Centro Teatro fa un lavoro importante. Il primo lo abbiamo realizzato quest’estate, a luglio, con una dozzina di persone. È stato così bello che ci siamo dette: perché non rifarlo, non rilanciare? Magari a Teatro, sarebbe stupendo, chiediamo al Comune». Le selezioni sono aperte fino al 29 settembre, basta inviare il proprio curriculum a beaschiros@gmail.com e… attendere.

Al centro della full immersion corpo e parole, il testo e poi tutti, tutto sé. Ritmo e.

«Arrivano persone anche da fuori regione. Certo, sarebbe bello pensare in futuro ad una restituzione. Ma per questo ci vorrebbe un percorso più lungo». Andiamo per step.

L’occasione, molto ghiotta, ci porta a chiederle di raccontare, di raccontarsi, di dirci chi è Beatrice: «La mia storia è particolare. Mi sono formata alla scuola del Teatro Stabile di Genova dal 1992 al 1995, ma prima lavoravo alla FIAT di Modena (dove vivo) e non ero così “giovane”. È stata la passione, forse ereditata, per la recitazione. Un giorno mi son detta: quasi quasi faccio provini. Mio padre disperato, mia madre gran sostenitrice: mia nonna, Ottorina Chiartelli, maestra e vera pontremolese, ha fatto tanto teatro, me lo dicono sempre. Quindi ho chiesto permessi, inventando storie, mi hanno presa, mio padre pianse – ma poi mi seguì sempre. All’epoca a dirigere la scuola di Genova c’era Marco Sciaccaluga, meraviglioso, è nel mio cuore. Finita la scuola sono poi andata a Roma, come tutti, ed ho iniziato a lavorare. La prima grande esperienza con Valeria Moriconi e Gabriele Vacis al Teatro Stabile delle Marche. Mi selezionarono su 200 persone, andammo in tournée. Poi ho lavorato ovunque. Lì e a Genova, di nuovo con lo Stabile ed il Teatro della Tosse. Sino alle altrettanto splendide esperienze al cinema e in televisione. Devo ringraziare l’universo, me lo ripeto sempre». E poi? Che succede? Poi Beatrice lavora dodici anni con la Carrozzeria Orfeo con cui realizza spettacoli da sold out in tutta Italia e oltre: «Sono stati anni stupendi, con lavori bellissimi e per me alcuni dei più importanti riconoscimenti del settore: dal Premio Mariangela Melato al Premio Eti Maschere del Teatro. Tutte esperienze meravigliose. Poi, due anni fa, ho dovuto smettere. Sono andata in burn out, ho pensato: mi devo allontanare. Ho lasciato il teatro dedicandomi ad altro, potendomelo permettere. Ho rifiutato molti lavori, mi son detta: se torno, torno con qualcosa di mio». Così accade.

Beatrice Schiros sapeva di aver bisogno di qualcosa, di un atto psico-magico, per tornare. Così nasce Metaforicamente Schiros: monologo, inno, in altre parole: confessione. Nasce con l’aiuto di Gabriele Scotti, amico, drammaturgo, presto co-autore. Nasce «a suon di vocali, Gabriele m’ha aiutato, mettendo semplicemente ordine alle mie idee». Lo spettacolo è co-prodotto da Misma Onda e Atir Milano, sarà in tour nel 2025. «Solo così posso far pace con il teatro, chi l’ha visto mi dice: ma l’hai scritto per me? Si piange tanto, si ride. Per me è come fare 20 sedute di psicoterapia in 1 ora e 10 (eh, non male). È un’opera semplice, io ed una sedia, quintatura nera, due effetti luce. Mi distrugge e libera, parla di me».  

Nei mesi precedenti laboratori, “L’Imperatrice” su Netflix a novembre e altre cose. Ma questa è la più importante e, va da sé, porta con sé, un po’ di pasta e amore lunigianese. «Be’, Pontremoli è la mia casa. Ti dico, l’unica che chiamo casa: quella in cui torno, torno sempre. Forse è perché ci ho passato l’infanzia, perché ci ho fatto gli scout, perché torno qui ogni estate, perché ho qui le mie più care amicizie. Mancano solo, oggi, i miei. Mia zia è stata l’ultima ad andarsene. Con lei s’è chiuso un capitolo enorme. Cambierà tutto, mentre la casa, di mia madre Anna Maria, resterà uguale. Ci sono i mobili, c’è il letto in cui dormiva con mio padre. La sento chiamare mia zia Gabriella, sento le urla (Cosa faccio? Vengo a pranzo da te?), sento le loro chiacchiere. Non verrò a viverci, no, non ora almeno, ma no, non ho nemmeno intenzione di andarmene».