8 Novembre 2024, venerdì

Norman ci manca da 11 anni, era uno di noi

“Mio figlio è morto nel 2010, ma muore anche oggi”, lo ha detto lo scorso anno Claudio Zarcone, padre di Norman, dottorando in filosofia del linguaggio che il 13 settembre di 11 anni fa si è gettato dal settimo piano dell’ex facoltà di lettere. “Mio figlio muore ogni volta che un ragazzo viene frustrato, delegittimato, deluso. Muore quando muore un ragazzo come lui. Ogni volta che un ragazzo parte, emigra, muore Norman – ha detto il padre –. Perché Norman ha lanciato un messaggio che non è stato ascoltato, non c’è più nessuno, a parole all’inizio tutti amici ma poi sono scomparsi tutti: società civile, istituzioni, sono rimaste solo le foto”.

Norman era un ragazzo come tanti, ma era anche un filosofo, un musicista, un letterato e condivideva con noi il piacere di scrivere su un giornale, anche se il suo sogno era quello di poter continuare a studiare, come ricercatore, all’interno della sua università. A sbarrargli la strada un clientelismo che ormai abbiamo imparato ad accettare come consueto, i baroni universitari e le canoniche raccomandazioni.

“Esistono due libertà incondizionate: la libertà di pensiero e la libertà di morire, che è la stessa di vivere”, scriveva Norman poco prima di morire. Aveva solo 27 anni, due lauree con 110 e lode, ma non vedeva più alcuna prospettiva, era provato dalle ingiustizie che il mondo accademico gli aveva sottoposto e decise di lasciarsi cadere nel vuoto. A casa lasciò una stanza vuota, una chitarra, un basso, due tastiere, montagne di libri, cd e foto appese alle pareti. Aveva voglia di vivere, Norman, ne aveva davvero tanta.

“Era anche giornalista Norman, aveva da poco preso il tesserino da pubblicista e stava conducendo un’inchiesta sulla mafia qui a Brancaccio – raccontò il padre in un’intervista a L’inkiesta -. Per guadagnare qualcosa faceva il bagnino in un lido all’Addaura. Mi raccontavano che teneva delle vere e proprie lezioni di filosofia ai bagnanti che lo ascoltavano rapiti”.

Il padre e molti amici hanno parlato di omicidio di Stato. Questo paese sta condannando i ventenni e i trentenni – forse anche le generazioni successive – a dover combattere quotidianamente con una vita di ansia, depressione, senza alcune certezza e senza prospettiva. Sembra che non ci sia alcuna possibilità di fare progetti, ma sia consentito di vivere solo il presente.

Diciamolo, il nostro non è un Paese per giovani, per laureati o per dottorati. Spendere i titoli di studio in aziende è un miraggio, ci sono ditte che non possono concedere altro che lavori precari a 500 euro al mese, non possiamo spendere nulla nella ricerca, sociale o scientifica, perché non ci sono fondi; la politica taglia le risorse a ciò che potrebbe contribuire ad un futuro migliore, ma spende per armamenti e guerre in terre dimenticate da dio. I concorsi pubblici sono rari, pieni di aspiranti di tutte le età, senza troppe convinzioni.

Nelle università ci sono corsi che non servono a nulla, creati ad hoc per assegnare cattedre. Questo mentre molti di noi si accontentano di scrivere su un blog, su un forum, alzare la voce in una piccola aula di partito senza concludere nulla, di scrivere su un giornale che solo perché è in rete deve essere gratuito.

La morte di Norman, come 11 anni fa, è un grido di dolore che mi fa ribollire il cuore, perché è quello della mia generazione, che non ha ancora una direzione, una via, e dovrebbe ribellarsi al sistema che la tiene imprigionata, dovrebbe impugnare le bandiere e manifestare ovunque rendendo importante il sacrificio di Norman Zarcone, studente.

Diego Remaggi
Diego Remaggihttp://diegoremaggi.me
Direttore e fondatore de l'Eco della Lunigiana. Scrivo di Geopolitica su Medium, Stati Generali e Substack.

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