Il 20 luglio 2001, come detto da più parti, è stato uno spartiacque cruciale per la storia di questo paese: l’Italia. Ed è stato un momento importante per quella che potremo definire globalizzazione, su cui solo oggi riusciamo a fare conti, nel bene e nel male. Genova è da sempre stata una città rilevante per la geopolitica e l’economia italiana, una città dura, ostile, chiusa nel suo passato, fatta di stradine che si nascondono alla vista di chi non è avvezzo a percorrerle, di certo non adatte ad ospitare migliaia di persone che manifestano per un’idea di mondo del tutto differente.
In queste condizioni da mesi si lavora per ospitare il secondo G8 sotto il governo Berlusconi, un incontro dalle premesse non facili, preceduto dagli scontri avvenuti a Seattle per l’incontro WTO del 1999. Per chi vuole approfondire il tema di quelle proteste, le pubblicazioni e le pagine in Rete oggi sono davvero tantissime e danno un quadro approfondito di quello che successe assieme alle sue cause e, ovviamente, alle sue conseguenze.
A Genova si decise di dividere la città in diverse aree di restrizioni per meglio controllare le proteste e dividere i quartieri in aree di competenza. Le richieste dei leader e dei rappresentanti delle associazioni sono precise
Il Genoa Social Forum chiese, attraverso i portavoce Vittorio Agnoletto e Luca Casarini, l’annullamento del G8, con la motivazione che la riunione dei capi di Stato e di governo era da considerarsi illegittima, in quanto pochi uomini potenti avrebbero preso decisioni destinate a condizionare popoli non rappresentati dal G8 e perché il divieto di entrare liberamente nella zona rossa costituiva una limitazione delle libertà costituzionali; tali richieste non furono accettate dal governo, motivando ciò con l’impossibilità di venire meno agli impegni internazionali precedentemente assunti dall’Italia, anche se questi fossero stati assunti dal precedente governo.
Fu chiaro fin dall’inizio che le richieste da parte del GSF avrebbero trovato una solida resistenza da parte delle forze dell’ordine a tutela del corretto svolgimento del summit internazionale.
Giovedì 19 luglio 50mila persone partecipano ad una manifestazione di migranti e extracomunitari. Il clima rimane disteso, tanto che in diverse fotografie e spezzoni video si possono vedere poliziotti e carabinieri scortare in maniera del tutto tranquilla i partecipanti talvolta fraternizzando con loro e comunque in un assetto tutto fuorchè ostile. Nella stessa giornata però inizia anche l’attività dissennata dei cosidetti black bloc che cominciano a colpire banche, agenzie di lavoro e diversi simboli della globalizzazione, auto di lusso e catene di supermercati.
Il 20 Luglio è il giorno più complesso. Per le strade della città si svolgono diverse manifestazioni autorizzate facenti capo a differenti associazioni e collettivi no global. Nel pomeriggio si svolgono gli scontri più accessi tra black bloc, probabilmente infiltrati nelle diverse marce di protesta, e forze dell’ordine. Il clima che ne scaturisce è di battaglia più che di normale interazione anti sommossa, i nervi diventano sempre più tesi e messi a dura prova da lanci di bottiglie molotov, lacrimogeni, incendi e cariche della polizia. Persino il carcere di Marassi viene preso di mira da lanci di bottiglie incendiarie e il lavoro delle forze delle ordine per ristabilire l’equilibro è sempre più complesso e improvvisato. In questo clima avvengono i tragici fatti di piazza Alimonda in cui Carlo Giuliani, ragazzo partecipante ai movimenti di protesta, perde la vita e diventa simbolo di quei giorni.
Sulle dinamiche della morte di Carlo si è cercato di fare luce durante l’iter processuale. Mario Placanica, carabiniere a bordo di un Defender rimasto incagliato nelle operazioni di ritirata di una squadra di carabinieri avrebbe sparato per legittima difesa contro il giovane che in quel momento stava brandendo un estintore. Le teorie balistiche sulla posizione di Placanica e la distanza di Giuliani sono le più diverse. Alcune testimonianze, ascoltate e valutate in sede processuale, descrivono anche tentativi di depistaggio sull’ormai cadavere di Carlo. Si dice che la sua testa sia stata colpita per dar luce all’ipotesi di una pietra scagliata “da un manifestante”.
Circa mezz’ora dopo la morte di Giuliani, alcuni giornalisti di Libero filmarono l’allora vicequestore Adriano Lauro che, in un alterco con un manifestante il quale attribuiva alle forze dell’ordine la responsabilità dell’uccisione apostrofandoli con la frase assassino in divisa, ribaltava sui manifestanti le accuse gridando: “Bastardo! Lo hai ucciso tu, lo hai ucciso! Bastardo! Tu l’hai ucciso, col tuo sasso, pezzo di merda! Col tuo sasso l’hai ucciso! Prendetelo!”.
Un fotoreporter arriva nei momenti immediatamente successivi alla morte di Giuliani e riesce a scattare delle immagini che testimonierebbero la scena pochi secondi dopo i due spari di Placanica. Tra essi e il “disincagliamento” del Defender dei carabinieri passano pochi secondi. Il corpo di Carlo viene prima schiacciato durante la retromarcia e poi, di nuovo, durante l’innesto della prima. Il fotografo, una volta notato dalle forze dell’ordine, viene malmenato e le sue macchine fotografiche distrutte.
In quel pomeriggio a Genova c’è un grande caos, le misure prese per contenere le proteste più che essere inadeguate sono sottostimate come se non si fosse tenuto conto della conformazione della città e soprattutto dell’evento a cui si sarebbe andati incontro. Dagli ultimi movimenti “di piazza” con cui polizia e carabinieri si erano trovati a fare i conti erano passati più di vent’anni. La città è inadeguata, la preparazione è ugualmente insufficiente, sono due critiche mosse anche dopo diversi anni. I black bloc riescono ad agire indisturbati percorrendo stradine interne che non erano tenute sotto controllo. Molto probabilmente nessuno si aspettava una tale partecipazione, non solo organizzata, ma anche di comuni cittadini, gente di passaggio, disposta a fermarsi qualche giorno e tanti diversi giovani genovesi che, proprio come Carlo Giuliani, avevano deciso quasi per caso di scendere in piazza e prendere parte agli scontri.
La mia opinione è che la morte di Carlo sia iniziata tanti giorni prima, quando la sicurezza e le manovre da compiere in casi estremi rimasero sulla carta, non comprese o non seguite correttamente da entrambe le parti. A Genova, il 20 luglio 2001 va in scena il caos. Piazza Alimonda è un inferno, cassonetti diventano barricate improvvisate, forze dell’ordine entrano in una strada in cui non sarebbero dovute intervenire, sui palazzi affacciati sulla piazza la gente osserva impotente dai balconi, Don Gallo in TV parla di “imboscata” da parte delle forze di polizia. In pieno pomeriggio ci sono due spari, uno colpisce Carlo, l’altro termina la corsa contro il muro di una chiesa. Carlo è ancora vivo quando cade a terra, qualcuno riesce a sentire il suo cuore che batte.
Negli stessi momenti io sono in Liguria, a La Spezia assieme ad alcuni amici. Siamo in coda per entrare al concerto di Bob Dylan, un evento eccezionale per una realtà locale che in genere non offre mai eventi così importanti. Lo stadio è posto proprio di fianco al grande arsenale militare attorno a cui si è sviluppata la città. Qualcuno ha pensato bene che i disordini di Genova avrebbero potuto avere delle ricadute anche da questa parte di Liguria così i poliziotti che presidiano l’ingresso e l’interno del “prato” sono diversi, ci sono loro e ci sono tante bandiere arcobaleno, diversi hippy al loro ennesimo concerto e tanti giovani no global, tra cui io, che per quella sera avevano in mente di cantare inni di pace senza tempo e senza appartenenza politica.
“Un ragazzo spagnolo è morto a Genova”. Era un giovane, dicono, non aveva nemmeno vent’anni, colpito da un sasso. I social network non esistono ancora e le uniche informazioni utili sono quelle delle radio e delle tv. Si dice in giro che il concerto sarebbe stato sospeso, che Bob Dylan avrebbe voluto così. Poi, però, Bob Dylan sale sul palco e canta, con la sua voce di sabbia e colla, Blowing in the Wind.
I fatti del 20 luglio 2001 li rivivo spesso come fossero l’inizio della parte della mia vita da ventenne, quella dei dissidi tra l’io interiore e il mondo attorno. Non ho mai voluto la globalizzazione e ho sempre lottato contro il capitalismo. Ogni anno, di questi tempi, il mio pensiero va a Carlo Giuliani. Non lo considero un eroe. Lo considero un ragazzo quasi della mia età, che non doveva morire, diventato simbolo di una lotta molto più grande che aveva previsto scenari storici importantissimi. E non penso sia giusto dimenticare quel giorno, ora che ho quasi 40 anni lo rivivo e mi sento quasi inadeguato all’età che ho, in questo mondo iperconesso, in cui i sentimenti sono fatti di immagini che dopo 24 ore scompaiono e le persone sono diventate lontanissime.