C’è un’Italia in cui commemorare le vittime del nazifascismo diventa un atto eversivo. È successo a Vinca, frazione di Fivizzano, dove 81 anni fa 174 persone — uomini, donne, bambini — furono trucidate dalle SS e dai fascisti repubblichini. Il sindaco Gianluigi Giannetti, fascia tricolore, ha detto in quell’occasione di essere “felice che nessun fascista fosse presente alla commemorazione” (nessuno del governo, ahimè). Una frase semplice, lineare, storicamente fondata: in un paese che ricorda un eccidio anche fascista, è un bene che non ci siano fascisti.
Ed ecco che scatta la scintilla. Roberto Vannacci, eurodeputato della Lega, si indigna su Facebook: “La sinistra di oggi è quella in cui un sindaco che indossa la fascia tricolore si permette di apostrofare come fascisti gli esponenti del governo. Attendo scuse oppure sarebbe auspicabile una querela.” Il fascismo come insulto personale, la memoria come offesa, la querela come riflesso condizionato.
Fin qui la cronaca. Ma è nei commenti che si svela la vera anatomia della cosiddetta “Repubblica delle Querele”, insomma i cittadini di questo nuovo stato, invocato da Vannacci girdano a gran voce:
- “Va perseguito per attentato al corpo politico dello Stato.”
- “I partigiani sono stati i veri assassini.”
- “Querela diretta, senza se e senza ma.”
- “In Lunigiana i partigiani hanno fatto le peggiori cose.”
- “Il comunismo è la più scellerata delle ideologie.”
- “I sindaci così vanno rimossi dall’incarico.”
- “Giannetti è eversivo.”
- E il capolavoro: “La strage di Vinca fu colpa di partigiani cretini che provocarono i tedeschi.”
Una sfilata di analfabetismo storico e civico, in cui la Resistenza viene rovesciata, i morti accusati, i carnefici assolti.
Uno dei leitmotiv dei commenti è il solito “e allora il comunismo”. Come se ricordare i crimini nazifascisti fosse impossibile senza bilanciarli con un contropeso. Certo, è vero: il comunismo, nel mondo, ha fatto stragi incalcolabili. Ma non in Italia, dove non è mai stato al governo e dove ha avuto una vita autonoma, diversa da quella del Comintern sovietico. Anzi, le stesse Brigate Rosse uccidevano comunisti per non essere “abbastanza comunisti”, come dimostra il caso di Guido Rossa, operaio e sindacalista assassinato nel 1979.
E soprattutto, i partigiani non erano solo comunisti. C’erano cattolici, liberali, monarchici, azionisti, repubblicani. Persone diversissime unite da un ideale semplice: mettere fine al fascismo. Quello stesso fascismo che, per inciso, il 25 luglio 1943 si mise fuori gioco da solo, quando il Gran Consiglio depose Mussolini. Altro che “eroismo”.
Praticamente oggi si sarebbero dovuti querelare tutti a vicenda?
Il cuore del problema è questo: nel dibattito pubblico italiano la querela è diventata l’arma di chi non sa reggere la critica, di chi non sa argomentare, di non sa come affrontare un “dissing” per dirla come i giovani. “Fascista” non come definizione storica, ma come ingiuria da tribunale. Un paradosso grottesco tra l’altro: chi rivendica libertà di parola per sé, invoca denunce e censure per gli altri. Cioè i fascisti di oggi, folkloristici, macchiettistici, ma fieri della loro condizione di reduci di un periodo passato, fatto di canzonette, cori razzisti, ce ne freghiamo, le bombe a man, si vorrebbero far valere meno col fez e più con le carte bollate
E intanto, sotto i post, si agitano i nuovi squadristi da tastiera: chi invoca commissariamenti, chi chiede squadre di avvocati pronti a “zittire il sindaco”, chi sogna processi per lesa maestà. Un’Italia che non ha imparato la grammatica della democrazia.
Non ci sarebbe bisogno di querela o di ammenda per certi commentatori. La pena più giusta sarebbe un ritorno obbligato ai banchi di scuola: un ciclo di studi completo, dai fondamenti della grammatica fino alla storia del Novecento, dall’homo erectus agli anni Ottanta. Un ripasso duro, ma necessario, per chi crede che i partigiani abbiano “provocato” le stragi naziste o che il fascismo sia stato un equivoco da salotto.
Il rovescio della medaglia
Nella folla di Vinca, accanto ai gonfaloni dei comuni e alle fasce tricolori dei sindaci, sventolavano anche bandiere palestinesi. Un dettaglio che non può comunque passare inosservato.
Molti movimenti legati alla galassia dell’ANPI e della sinistra radicale usano da tempo la bandiera palestinese come simbolo della “resistenza dei popoli oppressi”, creando un parallelo tra la lotta dei partigiani italiani e quella palestinese contro Israele. È un accostamento forzato e, nel contesto di una commemorazione di vittime del nazifascismo, del tutto fuori luogo.
La Resistenza italiana fu un’esperienza plurale, animata da comunisti, cattolici, liberali, monarchici, azionisti e repubblicani, uniti solo dall’obiettivo di abbattere il fascismo e liberare il Paese. Tirare in ballo oggi la Palestina significa spostare il baricentro dal ricordo dei martiri a un conflitto attuale, divisivo e controverso, che nulla ha a che fare con Vinca.
Così, nel nome della memoria, si rischia di svuotarla. Non è un caso che poi le destre colgano l’occasione per accusare le commemorazioni antifasciste di essere solo manifestazioni “di parte”. La verità è che a rendere parziali quelle cerimonie non è il ricordo dei morti, ma l’aggiunta indebita di bandiere e cause che con quei morti non hanno alcun legame.
La scena di Vinca comunque fotografa l’Italia di oggi: un sindaco che parla in nome della memoria collettiva, un eurodeputato che risponde minacciando querele, un coro di revisionisti che insulta i morti. “La Repubblica delle Querele” è questa: un Paese dove la memoria si processa e la storia si ribalta.
Isaac Bashevis Singer lo aveva già intuito: “Gli adulti devono essere capaci di sorridere mentre calpestano i morti, capaci di assistere a ingiustizie e tacere, almeno fino a quando la società non si fonderà su leggi comprensibili.”
Non sulle querele.