Giuseppe Conte si è tenuto a distanza di sicurezza dalla campagna elettorale per le regionali e sul referendum ha espresso la propria posizione lo scorso 9 agosto: “Voterò a favore del taglio dei parlamentari”, spiegando così la sua posizione: “Se si passa da 945 a 600 parlamentari non viene assolutamente pregiudicata la funzionalità del Parlamento”. La vittoria del sì – non era previsto un quorum rappresentato dalla maggioranza degli aventi diritti al voto – potrebbe servire a puntellare il Governo e a favorire la permanenza di Conte a Palazzo Chigi da dove guida il Paese ininterrottamente da 836 giorni (benché con due governi diversi). Ma molto dipenderà dall’esito delle sfide nelle Regioni.
La vittoria del no al referendum, di converso, avrebbe avuto un effetto deflagrante sull’esecutivo. Mentre per le votazioni regionali le due principali forze di maggioranza (419 parlamentari tra Camera e Senato) non hanno creato coalizioni, la consultazione referendaria le vedeva schierate sullo stesso fronte. Con una sconfitta del Sì sarebbe stato impossibile fare finta di nulla.
Il taglio dei parlamentari non sarà immediato
Mentre il prevalere del No alla riduzione del numero dei parlamentari avrebbe lasciato intatte Camera e Senato, con la vittoria del sì i cambiamenti saranno molteplici. C’è da dire però che la riduzione dei parlamentari non potrà essere immediata. Scatterà solo dopo un eventuale scioglimento anticipato delle Camere o alla conclusione naturale della legislatura (marzo 2023). In ogni caso non prima di sessanta giorni dall’entrata in vigore della legge costituzionale. È il tempo che serve per adottare un decreto legislativo per ridefinire i collegi elettorali del sistema di voto in vigore alla luce del numero ridotto di parlamentari. In particolare va rispettata la proporzione tra collegi uninominali (pari a tre ottavi dei seggi da eleggere nelle circoscrizioni) e i restanti seggi (cinque ottavi) assegnati nell’ambito di collegi plurinominali.
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