In un’epoca in cui il folklore rischiava di evaporare come la nebbia sugli Appennini, Luigi Fabbri ha fatto quello che faceva Omero sotto forma di contadino lunigianese: ha salvato la memoria cantandola. Nato a Panicale di Licciana Nardi in una famiglia semplice e radicata come un vecchio castagno, Fabbri fin da bambino ha ascoltato, respirato e poi restituito i canti popolari della sua terra, tramandati di bocca in bocca come pane azzimo di saggezza
Come molti figli della Lunigiana, il destino lo ha strappato ai suoi monti: è emigrato in Svizzera, a Ginevra, città dove ha imparato a suonare la chitarra. Ma, come avrebbe detto Montale “un grido risaliva l’orizzonte”, ed era il richiamo della sua terra che lo riportava indietro, tra le mulattiere e le aie battute dal sole.
Contadino, pastore, commerciante e, soprattutto, cantastorie: Luigi Fabbri, Bugelli per tutti, ha preso le radici contadine, le ha intrecciate con il blues e il rock imparati da giovane, e ha cucito su misura una nuova veste per l’anima popolare della Lunigiana. Dai giochi infantili alle antiche tiritere, ha creato ballate che non solo hanno custodito la tradizione, ma l’hanno trasformata in qualcosa di vivo: un vero folklore lunigianese, che prima semplicemente non esisteva come corpus autonomo.
Luigi Fabbri è stato – e resta – il custode canoro di una civiltà che rischiava di dissolversi tra i pixel e le autostrade. Se oggi possiamo ancora ascoltare l’eco di quei canti antichi, è perché lui ha avuto il coraggio di farli suonare nel presente, come avrebbe fatto un Dylan dei nostri boschi, con una chitarra, una voce ruvida e la testardaggine di chi sa che il passato non si archivia: si canta.