lunedì 23 Dicembre 2024

TSO: che dire?

della dottoressa Denia Franco
PsicologaPsicoterapeuta

 

Durante la mia formazione la prima volta che sentii parlare di TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio) non so come, feci una rapida e semplice associazione col DDT (Dicloro Difenil Tricloroetano) che, come qualcuno ricorderà, qualche decennio fa ci ha aiutato a debellare la malaria, ma i suoi effetti cancerogeni ed inquinanti sono ancora oggetto di discussione.
Non mi piace parlare per acronimi, le parole hanno un loro spessore; trattenendo solo le iniziali è come se le spogliassi del loro contenuto rendendone insipido il loro messaggio comunicativo. Basti pensare alla differenza che possiamo provare se ci sentiamo dire TVB oppure Ti Voglio Bene.
Gli acronimi tolgono valore e questo è molto rischioso soprattutto quando stiamo parlando di processi di cura e, ancor più nello specifico, di persone.

Dunque cosa si intende per Trattamento Sanitario Obbligatorio?

Cerchiamo di fare un po’ di chiarezza: è un provvedimento medico che obbliga una persona a usufruire di cure mediche prescindendo dalla propria volontà. Tale possibilità di azione prende forma in seguito alla riforma psichiatrica con la legge 180 del 1978, la così detta Legge Basaglia, ed è regolamentato dalla legge 833 del 1978 con diversi articoli (www.gazzettaufficiale.it). Anche se per trattamenti sanitari obbligatori si intendono tutte quelle azioni mediche regolamentate per legge, quindi anche vaccini, profilassi, accertamenti giuridici in merito all’uso di sostanze etc., è uso comune servirsi dell’acronimo TSO in ambito psichiatrico, quando in funzione della priorità del bisogno di curare e proteggere, vengono limitati i diritti di libertà di una persona.

Viene convalidato esclusivamente da un medico psichiatra dei servizi sanitari pubblici e può essere fatto solo in concomitanza di tre fattori: sono presenti alterazioni psichiche francamente alterate e inconsapevoli, la persona rifiuta i trattamenti di cura, non sono presenti altre tempestive e idonee misure di cura al di fuori del contesto ospedaliero. Dopo che i medici hanno accertato i fattori sussistenti è il sindaco del comune di pertinenza che firma il provvedimento.
Spesso l’intervento è coadiuvato dalle forze dell’ordine; la sua forzatura nell’obbligatorietà e lo stretto confine coi termini legislativi e giuridici spesso nell’immaginario collettivo hanno distorto e confuso la causa e l’obiettivo per cui lo si attua. Il TSO è uno strumento, così come lo sono le diagnosi, i farmaci e tecniche di approfondimento e trattamento. Dobbiamo fare attenzione a non cadere in una facile tentazione moralistica di giudizio, giusto o sbagliato, un TSO non viene mai fatto a cuori leggero, ma come ogni strumento terapeutico se non è accompagnato da un processo riabilitativo a 360° rimane fine a sé stesso.
Né tantomeno il TSO deve prendere le sembianze di una funzione segregativa, ovvero mettere da parte il soggetto disturbato o disturbante perché riflette un’immagine poco piacevole alla (della) comunità. L’ipotesi che la società possa rigenerarsi eliminando il portatore di un sintomo è alquanto illusoria ma, mi rendo conto, non del tutto superata dal collettivo. Non a caso nelle società primitive era uso comune sacrificare qualcuno per il bene di tutti; dopo un fugace miglioramento, se il sistema e la comunità non apportavano delle modifiche, si assisteva nuovamente alla comparsa di un nuovo “sintomo”. E così avviene anche ai giorni nostri in diversi ambiti del nostro quotidiano.

Nella terapia (atto finalizzato alla cura) a me piace tanto il concetto di riabilitazione (rendere nuovamente abile); perché essa avvenga è necessario un processo di trasformazione e quando esso coinvolge le persone non può avvenire a prescindere dalle relazioni umane che lo coinvolgono con conseguenze che permangono più a lungo.
Le tecniche, la teoria e l’applicazione burocratica di protocolli sono sterili strumenti se non si considera che la riabilitazione è fatta in primis di empatia, non per sminuire luoghi o ruoli deputati alla cura, ma per porre l’accento sull’importanza del mantenere il focus sull’essere umano e sulla capacità di relazionarsi ad esso. Perché nella sofferenza e nel dolore la vera differenza la fanno gli esseri umani. Basti pensare che buona percentuale della nostra identità è data dal riflesso che gli altri ci offrono di noi stessi: come ci sentiamo quando amici o parenti non ci ascoltano o mostrano di averci frainteso? E noi ci reputiamo personalità forti o per lo meno equilibrate, forse; pensate se questo avviene a personalità fragili e sofferenti, e a fraintenderli vi è tutto il mondo circostante.

A tal proposito è interessante ricordare l’Organizzazione Mondiale della Sanità che con il termine riabilitazione ha inteso quell’insieme di interventi progettati che mirano allo sviluppo di una persona al suo più alto potenziale sotto il profilo fisico, psicologico, sociale, occupazionale ed educativo, in relazione al suo limite fisiologico o anatomico e all’ambiente. Con l’introduzione nel 2001 della Classificazione Internazionale del Funzionamento, Disabilità e Salute (ICF) si è iniziato a dare il via a un approccio più aderente alla persona che tende a tracciarne un profilo di funzionamento, piuttosto che a stabilirne le sue mancanze, secondo una visione bio-psico-sociale dove la finalità dell’intervento è il livello di salute maggiormente raggiungibile da quella persona, in quel preciso contesto sociale con le risorse di cui si può disporre.
In fondo a chi di noi o a un nostro caro non è capitato di attraversare un periodo di sofferenza, un momento di crisi, di dolore, di aver provato la sensazione di non riuscire a farcela. Ecco io quando ho a che fare con i miei pazienti, o con persone a me vicine in un momento di profonda difficoltà mi pongo sempre inizialmente la stessa domanda: io dove e come mi colloco?
Sono il giudice? Sono il saggio? Sono l’operatore che per forza guarisce?
Spero di rimanere l’essere umano che usa i propri strumenti e il proprio ruolo mettendoli al servizio della sofferenza dell’altro, con la speranza di essere una parte di un più amplio processo di cambiamento.

denia.franco@gmail.com

Per ulteriori approfondimenti:
www.fondazionefrancobasaglia.it
www.salute.gov.it
www.who.int
www.iss.it

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Diego Remaggi
Diego Remaggihttp://diegoremaggi.me
Direttore e fondatore de l'Eco della Lunigiana. Scrivo di Geopolitica su Medium, Stati Generali e Substack.

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