Il verbo “accogliere” deriva dal latino “colligere”, il cui significato è raccogliere presso di sé.
Oggigiorno il termine accoglienza viene sempre più spesso utilizzato, soprattutto nell’ambito politico, in riferimento al modo in cui le pratiche governative nazionali ed internazionali affrontano l’odierno fenomeno immigratorio. Così, il verbo “accogliere”, ed il corrispettivo sostantivo “accoglienza” vengono, se così si può dire, confinati entro questo preciso e quanto mai definito dominio tematico. In questo modo, l’orizzonte semantico di questa parola, a mio parere di grande vastità, viene ad essere grandemente ridotto. Il suo potere di significazione diviene infatti limitato ad indicare una problematica storico-sociale caratterizzante un determinato momento storico, quella dell’immigrazione e dei vari aspetti ad essa annessi.
Ecco uno dei casi in cui l’utilizzo che si fa di una certa parola ne determina, a suo danno, un impoverimento, una limitazione nell’orizzonte della sua significazione. L’atto dell’accogliere infatti ha una forte pregnanza anche nel nostro vivere quotidiano e, azzarderei a dire, che esso possa addirittura risultare rivelativo per comprendere il senso della nostra stessa esistenza.
Per farmi capire meglio, vi chiederei di ripensare alla nostra nascita: non è forse con un atto di accoglienza che noi entriamo a far parte di questo mondo, della casa in cui abitiamo, della vita cui siamo stati destinati? Non è forse vero che tutto ciò che ci è possibile al momento della nostra nascita è accettare ciò che ci sta accadendo? Lì, in una piccola sala di ospedale, aprendo i nostri occhi, ognuno di noi ha espresso il proprio tacito consenso alla vita. Il nostro pianto, rassicurante alle orecchie dei genitori, è stato il modo in cui, per la prima volta abbiamo gridato a squarciagola il nostro sì alla vita e a quel mondo cui presto avremmo cominciato a prendere parte.
Ma se l’evento della nostra nascita ha davvero questa forma, perché da tempi memorabili, ogni scienza e discorso che si siano occupati dell’essere umano, hanno fatto di lui, di noi, almeno in prima istanza, degli esseri semplicemente dotati di libero arbitrio, tralasciando così del tutto quella nostra natura “capiente” ed accogliente che ci caratterizza al momento della nostra entrata alla vita? Noi stessi possiamo riconoscere che la nostra prima natura sia stata non già quella di essere creature volenti, capaci di decidere e autodeterminarsi, ma quella di creature capaci solo di acconsentire, di dire sì, di essere completamente privi di arbitrio e capaci soltanto di accogliere il tutto a braccia aperte.
Gesù di Nazaret comandava “Ama il prossimo tuo come ami te stesso“, essendo ben consapevole che il valore ed il senso di ogni vera rivoluzione -proprio come quella che lui stesso stava portando innanzi- fosse misurabile soltanto in relazione alla capacità da parte del dissenso, in essa espresso e sostenuto, di realizzare nuovamente, in ognuno di noi, quella primigenia capacità di accoglienza e di apertura che contraddistingue l’uomo nascente di fronte alla vita. Lui sapeva che ogni nostra scelta e decisione, ogni nostra possibilità porta il contrassegno di quell’apertura, di quell’ancestrale e tacita accoglienza del tutto cui prendemmo parte per la prima volta nascendo.