Quando Sara Fgaier mi risponde al telefono non immagino che dalla prima domanda sarebbe partito inesorabilmente il flusso: «A Locarno lo dicevano – confessa, ridendo – dicevano Adesso respira, mi prendevano in giro». Io l’ho conosciuta, mea culpa, solo a fine 2021: era alla Spezia, sua città natale, per presentare Gli anni. Era al Tea Time di Fuori Luogo. Quando qualche mese fa ho letto del suo film, del suo primo film, le ho subito scritto. Si chiama Sulla terra leggeri, uscirà in sala il 28 novembre, prodotto da Limen, Avventurosa e Dugong Films e distribuito da Luce Cinecittà.
«Io ho studiato Storia del cinema all’Università di Bologna – racconta – Ero convinta, sin da ragazzina vedevo un film al giorno. Certo, non sapevo quale aspetto avrei voluto approfondire, ma sapevo che il cinema era il mio mondo: mi sono iscritta al DAMS, a Bologna c’era (e c’è) la Cineteca, continuavo a vedere film – in grande, magnifici – ogni giorno. Mi sono formata così, sono un’autodidatta, non ho mai fatto scuole di cinema, solo un’esperienza quando mi stavo laureando». Un anno alla Scuola di Bobbio di Marco Bellocchio. «Interessante, ma per la regia più che altro». Questo l’inizio. Sara ha cominciato poi a fare documentari, sua passione per molto molto tempo: «Mi sento fortunata perché ho incontrato persone con cui ho condiviso il sogno di fare cinema, amici con cui realizzare progetti (a budget bassissimo). Il documentario è uno strumento che ti permette grande libertà». Il primo è stato Il passaggio della linea (2007) con Pietro Marcello, con cui Sara ha poi lavorato a lungo. Già allora, come poi spesso dopo, ha seguito la realizzazione del film dal principio alla fine, nelle varie fasi: ricerche, aiuto regia, montaggio. Aline Hervé è stata sempre ‘maestra’, riferimento. «Lavorando ai materiali, dall’archiviazione alla creazione delle demo, ho capito che mi veniva naturale: io non sono particolarmente tecnica, il primo computer l’ho avuto con mia sorella per scrivere la tesi, ma il montaggio è più testa che tecnica, mi mette a mio agio. Mi sento nel mio».
Quindi Sara non è la persona che dice Sognavo di fare la regista, no: «Francamente, per quanto fossi curiosa, non avevo quella pretesa: sai, dire di voler diventare regista a vent’anni è come dire a quindici anni Voglio fare la rockstar. Ogni tanto ho avuto qualche dubbio sul fatto di frequentare una scuola di cinema o no. Poi è arrivato La bocca del lupo (2010), sempre con Pietro Marcello. Col senno di poi sono felice di aver continuato a lavorare, mi è servito molto. Il montaggio dà spazio al pensiero critico, permette di dare alle immagini il giusto peso». Poi una cosa inaspettata, grandissima: «Mi hanno scritto per dirmi che ero tra i possibili 24 candidati per il Premio Rolex per le Arti, che poi ho vinto. Per quel premio (tra i più importanti al mondo) non avevano mai scelto un montatore – né un italiano. Così sono diventata la ‘protetta’ di Walter Murch ed è stato bellissimo, molto formativo. Anche in quel caso avere già lavorato, trovato il ‘mio stile’ mi ha aiutato, permesso un confronto diverso».
Da lì Sara ha aperto Avventurosa, con Pietro Marcello, diventando produttrice oltre che montatrice. «Abbiamo fatto film piccoli ma importanti, che hanno girato il mondo. Dal 2013 ho iniziato a realizzare dei miei cortometraggi, a partire da immagini d’archivio, il primo è stato L’approdo, poi c’è stato 9×10 Novanta (per i novant’anni dell’Istituto Luce), in co-regia con Pietro Marcello. Poi Gli anni, nato all’interno del bando Re-framing Home Movies, in un clima di estrema libertà creativa. Era la prima volta che applicavo ad un bando, sembrava scritto per me, coinvolgeva tre archivi importanti e prevedeva una residenza alla Cineteca Sarda di Cagliari che aveva appena digitalizzato 9000 bobine. Gli anni è nato in modo molto artigianale, casalingo: registravo la mia voce in camera da letto, nell’altra stanza montavo. Mi ha preso tanto. È stato selezionato a Orizzonti e poi ha vinto l’European Film Awards come Miglior cortometraggio».
Dopo quel momento, Sara ha vissuto in Francia per un po’ di tempo, pensando già al film partorito adesso. Tra 2018 e 2019 ha girato in Sardegna, per ricerche e riprese sul carnevale come rito e sui riti di possessione nordafricani, elementi che in qualche modo rimangono – Sulla terra leggeri, dice, è un film molto stratificato. «Sin dall’inizio l’ho immaginato come un collage lirico composto da materiali di diversa origine: riprese dal vero, immagini documentarie e d’archivio. La prima ispirazione l’ho avuta filmando il Carnevale dell’entroterra sardo, un culto di origini arcaiche dedicato al Dioniso dell’Oriente, molto vicino alle danze dei mistici musulmani ancora presenti nel Maghreb, che ho filmato successivamente. Si tratta di rituali ancora potenti in cui la dimensione del visibile e quella dell’invisibile sembrano riuscire a comunicare. Se dovessi riassumere il film ti direi che si tratta della ricerca delle principali esperienze capaci di riconfigurare il tempo e lo spazio: i sogni, gli antichi riti, l’amore e il dolore. Il carnevale riflette il ciclico alternarsi di buio e luce, segna un prima e un dopo, ci ricorda che nella vita tutto è trasformazione, cambiamento, che nella vita si ride e si piange, si nasce e si muore e che tutta questa vicenda è profondamente collettiva, tutto è condiviso. L’uomo non è mai solo nella festa, nella malattia, nel dolore, come accade invece in epoca contemporanea, in cui il tempo secolarizzato trasforma la morte in tabù e il lutto è ridotto a faccenda privata. La trance estatica e i riti di possessione magrebini implicano sia la fuoriuscita del sé dai limiti del proprio corpo sia l’incorporazione dell’invisibile, che permette l’accesso ad una dimensione ulteriore e sacrale. L’amore non è meno potente. Segna un prima e un dopo: basta un attimo. Comunque vada, non se ne esce mai come prima. Quando finisce, bisogna tornare ad orientarsi, tornare a collocarsi. E così il dolore del lutto».
«Essere altro da sé, uscire dai confini del proprio Ego rivela uno dei bisogni primari dell’essere umano. Bisogna riconoscere alla tradizione il merito di aver saputo rispondere, nel modo più concreto e corporeo, a questa esigenza che nessuna società industrializzata basata unicamente sulla produzione, chiusa all’irrazionale, può soddisfare. Si può ancora credere che le esperienze fondamentali dell’individuo di qualsiasi epoca – l’innamoramento, il dolore, il rapporto con la morte – siano in grado di riportare a questi bisogni». A ispirarla fonti d’ispirazione diverse e Livelli di vita di Julian Barnes su tutto. Nel libro si legge, ci dice: Metti insieme due cose che insieme non sono mai state e il mondo cambia. «Mi ha molto colpita. Accade spesso in montaggio. Ho capito in quel momento che tutte le ispirazioni e i materiali che avevo raccolto potevano confluire in un unico progetto. Mi ha fatto capire che volevo confrontare il tema della memoria, già presente in tutti i miei precedenti lavori, con la dimensione dell’invisibile. Nasce, così, la storia di Gian, un uomo che si ammala di amnesia dissociativa quando perde la donna della sua vita e che riesce a ritrovarla attraverso le pagine di un vecchio diario. Che cosa succede quando qualcuno dimentica la cosa più importante della sua vita? La difesa di Gian si rivela peggiore del dolore da cui tenta di fuggire. E cosa succede all’altra persona quando non viene più ricordata? Gian, smettendo di ricordare, smette di dare vita a Leila, che così muore non una, ma due volte. Solo dialogando con l’invisibile, Gian riesce a ritrovare sé stesso, la sua identità di padre e la donna perduta, che così continua a vivere nel suo ricordo. Sulla terra leggeri è un film sulla perdita e sul tentativo, a volte disperato, di ritrovare ciò che si è perduto: la memoria, un amore, ma anche un’ epoca del passato – rievocata dagli archivi con i suoi personaggi che prima di Gian hanno amato, perduto, pianto, riso, vissuto – e un orizzonte mitico, evocato da antichi rituali, capace di creare un dialogo familiare tra vivi e morti, di dare alle singole storie un senso collettivo e cosmico».
A interpretare Gian e Leila tre attori diversi per quarant’anni di vita in cui il film è sviluppato. Sulla terra leggeri è un film nato da diversi mesi di casting, tre anni di ricerche, sette mesi di montaggio. Girato tra Italia e Tunisia, il film è parlato in più lingue, ci parla di mondi diversi che s’incontrano. Le scene sono state girate tra Italia e Tunisia ed in tre regioni italiane (Liguria, Sardegna, Lazio): «In una cava abbandonata, raggiungibile solo a piedi, su un’isola, in cima ad una falesia, sott’acqua, durante un vero carnevale e con un animale non addomesticabile, lungo il Mediterraneo». Tra i luoghi anche quelli in cui è cresciuta Sara, la Palmaria e le Cinque Terre – queste viste dall’alto.
Altro elemento importante: la scelta di girare l’intero film in pellicola in 16 mm, scelta voluta da Sara e dal direttore alla fotografia, Alberto Fasulo. «Proprio perché il film si fonda sulla mescolanza di materiali eterogenei ho scelto di girarlo in pellicola, in 16mm. Io e Alberto volevamo assicurare uniformità nella pasta dell’immagine per riuscire a restare in un unico flusso narrativo, temporale ed estetico. Volevo creare uno spazio che non fosse né passato né presente. Una compresenza che è la condizione in cui vive Gian. Volevo riuscire ad entrare nel suo stato mentale». Il cinema, meglio delle altre arti, ci consente di attraversare e uscire dal tempo. La parola chiave che ha guidato Sara? Frammentazione. «L’irruzione di immagini e flash frammentari raccontano la confusione di Gian, il suo processo di deterioramento». In più, «c’è qualcosa che ha a che vedere con il sentire che assieme ad una persona se ne va un’epoca, una forma d’amare, un mondo. Perdere qualcuno è questo, no?». L’archivio ci riporta – anche – al tempo perduto: nel film 8 minuti in totale da 16 archivi provenienti da tutto il mondo.
Il film è stato in concorso Internazionale a Locarno, poi nei giorni scorsi a Londra per il BFI, secondo festival, una dimensione bella, più intimo. Oggi sarà a Bologna per la sua anteprima italiana all’interno di Archivio Aperto di Homemovies – uno degli archivi coinvolti nel film, tra l’altro. Uscirà in sala il 28 novembre, Sara organizzerà un piccolo tour, vorrebbe partire dalla Spezia, chiaro. Sono posti a cui è ancora legata, molto: «Il mio posto del cuore è il Santuario della Madonna di Montenero, dove avevo uno studio magnifico, in una casa piccolissima, ma con il mare, le isole davanti, loro soltanto. Partire da qui sarebbe bellissimo».
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Abbiamo parlato con / Sara Fgaier (1982), regista, montatrice, produttrice italo-tunisina.
Sara Fgaier è una regista, montatrice e produttrice italo-tunisina originaria di Riomaggiore, La Spezia. Ha ricevuto il Premio Rolex per le Arti (2012-2013), grazie al quale ha lavorato con Walter Murch. Ha diretto i cortometraggi L’umile Italia (2014, Giornate degli Autori) e Gli anni (2018, Orizzonti), che ha vinto l’EFA come Miglior Cortometraggio Europeo e il Nastro d’Argento per il Miglior Documentario. Sulla terra leggeri (2024) è il suo primo lungometraggio, presentato in Concorso Internazionale al Festival di Locarno. È cofondatrice con Pietro Marcello della casa di produzione Avventurosa e fondatrice di Limen. Come montatrice e produttrice ha realizzato, tra gli altri, La bocca del lupo (2009) e Bella e perduta (2015).