Quello che sapevo già prima di ieri mattina era che Hadar Sharvit era una sopravvissutta dal pogrom del Supernova Music Festival. La seconda me l’ha detta il suo ragazzo: che alle Cinque Terre, la sera prima, avevano mangiato un pesce buonissimo.
Se non fosse stato un evento abbastanza importante, una ragazza israeliana ricevuta da un sindaco di una città italiana, nessuno ci avrebbe fatto caso. Hadar era lì per visitare l’Italia, andare a Firenze, Milano, Venezia, viaggiando con una automobile elettrica, fermandosi in una piazza a bere un caffè come una ventottenne qualunque. A ritrovare la vita che il 7 ottobre ha cercato di strapparle. A scanso di equivoci, non c’è la ricerca di compassione, non ci sono bandiere o ideologie, raccontare l’esperienza personale di un evento che ha segnato un’epoca e visto morire almeno 364 giovani.
Mentre i terroristi di Hamas iniziavano a sparare io stavo seguendo per lavoro gli aggiornamenti di canali esteri su Telegram. I primi video degli stessi militanti jhiadaisti iniziarono a circolare. Era davvero possibile che potesse succedere in Israele? Hadar era lì. Io no. “Eppure – mi dice in un bar di piazza Europa – sono sopravvissuta”.
Nascosta in un frutteto, Hadar ha visto coi suoi occhi le atrocità commesse, ha sentito il suono dei kalashnikov, ha pensato, credo, alla sua vita normale, quella di una 28enne che lavora nella scuola.
Chiedo ad Hadar se ritiene possibile, un giorno, avere due stati, Palestinesi ed Israeliani. Mi guarda e dice che non lo sa. Osserva il tavolo del bar, sentiamo il profumo della colazione italiana, l’odore invitante delle paste e il vociare della gente intorno. Sono successe troppe cose dopo il 7 ottobre, che hanno reso tutto ancora più complicato a polarizzante. Allora mi è venuta in mente una frase di Shakespeare che poi ho sentito ripetere in Westworld, una serie tv: “Questi piaceri violenti hanno una fine violenta, e nel loro trionfo muoiono, come fuoco e polvere”. Ho pensato alla fine che hanno fatto molti degli ideatori del pogrom del 7 ottobre.
Hadar mostra una medaglietta, è una stella di David, dice che oggi portarla non è più così scontato, forse perchè parte dell’opinione pubblica ha dimenticato che cosa significhi non odiare. “In Israele abbiamo sempre avuto palestinesi nelle nostre case, gente che lavorava da venti anni a contatto con famiglie che poi sono state sterminate”.
Quello che credo abbia voluto dire, intrinsecamente, Hadar con questa sua visita in Italia (ospite di associazioni e sindaci), ma soprattutto alla ricerca di un viaggio normale alla scoperta di Firenze, Venezia, Milano, va al di là della solita rabbia che si scatena – come sempre – sui social così che ad un tratto mi sono chiesto: davvero c’è qualcuno che pensa di poter spiegare come si sopravvive all’odio?
Fuori dalla finestra, nel mondo parallelo dei social, qualcuno scrive che non merita ascolto. Che è propaganda. Che è colpa sua. Dentro la stanza di un comune, nel dehor di un bar di provincia invece, c’è solo una ragazza di ventotto anni che ha visto la morte e ora vuole tornare alla vita.
